Alcune teorie lo fanno risalire ai grandi molossi da guerra usati dalle popolazioni mediorientali, tra cui gli assiri, i babilonesi, e i greci dell'Epiro, importati in seguito in Europa dai Fenici (VI sec. a.C.), che li usavano come guardiani delle loro merci e come merce da scambio stessa: gli stessi grandi molossi citati da Plinio il Vecchio (23-79 a.C.) nella sua opera "Naturalis Historia", nella quale si narra dei due cani regalati ad Alessandro Magno dal re dell'Epiro, famosi per la particolare grandezza ("inusitatae magnitudinis").
A questi soggetti, già presenti sul suolo italico perché, come sopra ricordato, utilizzati come merce da scambio, se ne aggiunsero altri, reperiti ed importati dai Romani a seguito delle loro campagne militari nei territori della Gallia (dal 121 a.c. Al 50 a.c.), incrociando così i loro cani con molossi da guerra di origine celtica. Poiché presso i romani i cani da combattimento (canis pugnax o pugnaces) rivestivano grande importanza, era stata istituita, sembra durante la campagna di Britannia (55 A.C.), la figura del procurator cynegii, un ufficiale che selezionava i soggetti più adatti alle varie esigenze dell'Impero: innanzitutto cani da guerra, che venivano poi opportunamente incrociati con soggetti già funzionali ad altre attività, dando vita a linee di sangue da caccia grossa, bovari, porcari, pastori. Altro utilizzo predominante era quello “ludico” nei “giochi” del circo: tali cani venivano usati in cacce e combattimenti contro orsi, leoni e tigri.
Dicono gli scritti dell'epoca che quattro mastini ben addestrati fossero in grado di uccidere un leone. Molto in voga all'epoca era la tauromachia ( dal greco tauros (ταύρος) = toro e máchē (μάχη)=battaglia, ), pratica ancora in voga in Spagna e, fino ad alcuni decenni fa, anche se clandestinamente, in certe zone d'Italia. La bravura dei cani o addirittura del singolo cane, stava nel riuscire a mettere a terra e bloccare il toro infuriato prendendolo saldamente all'orecchio o al musello, punti particolarmente sensibili, in modo da causare l'immobilità dell'animale, a seguito del gran dolore.
Ma la funzione principale rimaneva la guerra, per la quale venivano addestrati usando uomini, presumibilmente prigionieri, condannati a morte, o, in mancanza di questi, dei fantocci riempiti con sangue e budella di animali morti, in modo che il cane imparasse ad associare il nemico al cibo: I cani venivano opportunamente bardati con imbracature di cuoio e metallo leggero, spesso sormontati da lame o da rostri che, in caso di combattimento contro eserciti provvisti di cavalcature, avevano la funzione di sventrare i cavalli e neutralizzare la cavalleria nemica.
L'utilizzo del cane da guerra si è protratto in vari modi anche nei secoli successivi: venne utilizzato ad esempio dai conquistadores spagnoli per fare strage di indios e, più recentemente, dall'esercito italiano nella guerra Italo-Turca del 1912, alla quale presero parte dei soggetti di Dogo Sardesco.
Certamente per arricchire il patrimonio genetico dei cani importati , i romani, oltre che incrociarli trà loro, attinsero anche a quello già presente sul suolo italico, appartenente a razze di cani da pastore autoctone, ottenendo così vari tipi di molossi multifunzionali. In particolare, ne risultarono due tipologie, pesante e leggera: una per la guerra e i combattimenti con le belve feroci, l'altra per la caccia, a volte opportunamente incrociata con cani di tipo levrieroide per ottenere agilità, velocità e potenza sulla presa. Dopo la caduta dell'impero romano, la proprietà di questi cani divenne prerogativa di pochi fortunati signori locali, grossi proprietari terrieri, spesso allevatori di bestiame, che, oltre ad averne l'esigenza, potevano permettersi il loro mantenimento; questi cani venivano incrociati a seconda delle esigenze di utilità con cani tipo graioide o braccoide per la caccia, o con i grezzi canis pastoralis per ottenere un più temibile e affidabile guardiano di bestiame. Non di rado, questi soggetti, frutto di accoppiamenti di “utilità”, rientravano in riproduzione nella linea di sangue originale dei molossi e dei cani da pecora. Inoltre, gli utilizzatori pratici a cui questi cani venivano affidati dal loro signore, certamente li accoppiavano a soggetti di tipologia similare, considerandoli “cani di lusso”, dando vita così a nuove linee di sangue con estese pezzature bianche, soggetti dal manto completamente bianco, struttura più leggera, mantello dal pelo più lungo e rustico e, quindi, maggiormente adattabili alle intemperie e alla scarsa alimentazione dei villici, pur tuttavia mantenendo le caratteristiche peculiari della tipo originario.
Questi cani dovevano guadagnarsi da vivere e, in mancanza di guerre, dovevano convogliare le loro capacità nell'aiutare i loro detentori nella lotta per la sopravvivenza; le popolazioni delle campagne li usavano allora come custodi di bovini e, i macellai, tra i pochi privilegiati che potevano permettersi di mantenere le linee pesanti, li usavano per bloccare i tori da macello durante la cattura e poi durante l'uccisione, pratica questa che si è perpetuata fino ai primi decenni del 1900, assumendo tonalità spesso spettacolari, reminiscenza della tradizionale e ancestrale “tauromachia”.
Altro l'utilizzo frequente era quello di cane porcaio, capraio, a volte pastore, in ogni caso guardiano per eccellenza delle case e delle proprietà, nonché come “cane guardia del corpo” per scoraggiare malviventi e nemici.Era e a tutt'oggi rimane, per chi lo utilizza, il cane da caccia al cinghiale per antonomasia e, non di rado, due cani corso, ben addestrati fin da cuccioli con i maialini domestici, sono in grado di bloccare un cinghiale, anche se il numero ideale, per questa attività, sarebbe di quattro unità: due bloccano la preda per il musello, gli altri due afferrano i genitali, causando un tale dolore da renderlo impotente e alla mercé del cacciatore, che lo uccide con un colpo secco di pugnale, (pratica tradizionale oggi affiancata dall'utilizzo del fucile), per poi affrettarsi a tagliargli i genitali evitando cosi che la carne si impregni di cattivo sapore, diventando immangiabile. Altro utilizzo tradizionale era la caccia al tasso e all'istrice, le cui carni sono particolarmente prelibate; ricordano infatti quella del maiale ma più magre.Questo tipo di caccia si svolgeva di notte, usando cani corso veloci, di taglia leggera, ma ugualmente robusti (in modo da riuscire a penetrare nelle tane), di colore bianco o frumentino, poiché maggiormente visibili. Il cane corso è particolarmente adatto a questo compito poiché dotato di grande resistenza al dolore e pervicacia nella lotta, nonostante debba affrontare gli enormi aculei dell'istrice che non di rado causa cecità nei cani: una volta che il cane ha afferrato la preda nella tana, il cacciatore lo prende per il moncone della coda e lo tira fuori, estraendo cane e preda. La preservazione di questa popolazione canina (il concetto di razza infatti viene introdotto soltanto nel diciannovesimo secolo), avvenne prevalentemente nel sud d'Italia ad opera degli utilizzatori pratici ( massari, cacciatori, mandriani, macellai, nobili, proprietari terrieri, fattori, guardie campestri, forze dell'ordine, briganti, malavitosi, e “guappi” ) che risultarono essere gli unici depositari di questo patrimonio cinognostico; celebri sono le rappresentazioni, quadri e incisioni, di Bartolomeo Pinelli, artista romano, pittore per eccellenza di briganti e cani corso, di cui egli stesso era possessore.
Nel secolo scorso, si verificò un inesorabile declino del molosso italico, accentuato poi dalle crisi economiche derivanti dai conflitti mondiali del '900. Fu solo nel 1946 che, alla prima mostra canina del dopoguerra tenutasi a Napoli, il molosso italiano fu riscoperto ufficialmente da Piero Scanziani, giornalista e scrittore nonché cinofilo; memorabile è rimasta, nella storia della cinofilia, il racconto del suo incontro con il molosso verace, racconto tratto dal libro “Il Cane Utile”, Elvetica Edizioni. Nel 1949 venne sancito il riconoscimento ufficiale della razza denominata inizialmente Mastino Napolitano Cane Corso cane da presa; la denominazione "mastino napoletano" fu adottata a seguito delle forti pressioni provenienti dal mondo della cinofilia partenopea, che rivendicava la denominazione della razza, asserendo che essa si fosse preservata solo grazie all'interessamento degli utilizzatori campani, mentre invece Scanziani avrebbe preferito la denominazione di Molosso Italiano o Molosso Romano. La selezione fu indirizzata privilegiando la linea pesante del molosso italico, tale da giungere, negli ultimi decenni, ad una vera e propria estremizzazione di “tipo”, compiacente nei confronti delle mode e del business, ricercando il gigantismo, linfatismo, l' accorciamento della canna nasale in maniera sempre più estremizzata, fino ad arrivare “all'iper-tipo”. Per giungere a questi “risultati” si sono escluse dalla riproduzione intere linee di sangue, eliminando diverse colorazioni tipiche ( come il frumentino o formentino ) e quella che era l'antica tessitura del mantello, con il risultato che l'attuale discendente dei fieri guardiani di masserie e bestiame ha un pelo raso e lucido molto meno adatto ad una vita all'aperto; in compenso, ci ritroviamo delle caratteristiche morfologiche e taluni colori che esulano da quella che era la tradizionale tipologia della razza; ad esempio, il color mologno ( tipico del dogue de bordeaux ) che, a detta di anziani mastinari, non è mai stato presente nei soggetti da loro visti.
Viene da chiedersi cosa ha in comune questo cane, dalla vita particolarmente breve ( molti soggetti non superano i 5-6 anni di vita), che ha difficoltà di movimento, di respirazione, di riproduzione, con i molossi da lavoro che si vedevano nelle masserie del meridione sino a trenta-quaranta anni fà e che ancora qualcuno conserva gelosamente.
Ormai questa è divenuta una razza mantenuta in vita artificialmente; infatti, la riproduzione avviene spesso per inseminazione artificiale, i parti super assistiti e spesso con cesareo, l'allattamento quando non viene eseguito dagli allevatori con biberon, viene affidato alla cosiddetta “balia”, una cagna meticcia fatta accoppiare nello stesso periodo della mastina, alla quale dopo il parto vengono uccisi i cuccioli per poi affidargli quelli di mastino,certi che farà il suo dovere materno, contrariamente all'ipertipica e snaturata femmina di mastino. L'istinto materno in queste cagne è infatti assai sopito dopo decenni di mantenimento artificiale della razza: partorendo con il cesareo esse non hanno neanche la percezione del parto,non danno ai cuccioli quegli stimoli che farebbero scattare in loro meccanismi mentali, istintivi, ancestrali e indispensabili all'equilibrio psichico dei soggetti una volta adulti, utili al loro interagire con l'uomo, con gli altri cani e quindi indispensabili per il proseguo della specie stessa e alla stessa funzionalità.
Verso la fine degli anni settanta, alcuni appassionati cinofili italiani iniziarono ad interessarsi di ciò che rimaneva della variante leggera ancora in mano agli utilizzatori pratici in contesti agro-pastorali. Le ricerche si concentrarono maggiormente nel territorio delle Puglie, con lo scopo di reperire i soggetti più tipici; l'obbiettivo era arrivare al riconoscimento di una razza con una propria identità differenziata da quella del Mastino Napoletano. Conseguire un risultato convincente ai fini del riconoscimento nel più breve tempo possibile non era semplice; troppe cose accomunavano le due tipologie, sebbene, negli anni settanta, il mastino napoletano aveva già iniziato a sconfinare “nell'ipertipo”. Per portare alla F.C.I. argomentazioni convincenti sull'identità a se stante del molosso leggero (Cane Corso), si intraprese la strada della differenziazione “a tutti i costi”. Innanzitutto, si pensò di lavorare sulla taglia, mirando al reperimento di soggetti particolarmente leggeri con l'obbiettivo di non superare, in riproduzione, la media dei 40 - 50 kg; inoltre, si puntò a valorizzare la chiusura dentaria prognata presente in alcuni sporadici soggetti (il mastino napoletano chiude generalmente a tenaglia).
Riuscire ad ottenere in riproduzione soggetti uniformi portatori di prognatismo, che è un carattere degenerativo recessivo, era impossibile; si decise allora (come risulta anche da documenti ufficiali), di inserire in riproduzione il Boxer, caratterizzato da prognatismo congenito estremo. Ciò, per ovvi motivi burocratici e commerciali: il boxer, oltre a trasmettere il prognatismo, riduceva anche la taglia dei soggetti e ne “ammansiva” il carattere, rendendoli anche più adatti a sfilare in passerella e farsi “maneggiare” dai giudici, durante le invadenti verifiche morfologiche: infatti, difficilmente un Corso vecchia maniera si farebbe aprire la bocca da un estraneo in maniera tanto scontata. Sarebbe più consono alle caratteristiche comportamentali della razza, evitare coercizioni caratteriali ammettendo che il cane rifugga dal farsi aprire la bocca da un estraneo, quale è un giudice di gara; basti pensare al Fila brasileiro, per il quale, è anzi motivo di orgoglio, il suo rifiutarsi a tale pratica.
Dopo un percorso di snaturamento della razza, il suo imbastardimento, l'eliminazione di varie colorazioni tipiche, la stabilizzazione di alcune caratteristiche riguardanti il prognatismo, gli assi-cranio-facciali, una tessitura del mantello e un carattere fortemente boxerino, nel 1994 si giunse al suo riconoscimento ufficiale. Fortunatamente, ad opera di vari irriducibili appassionati, allevatorie utilizzatori pratici, il molosso italico verace ancora sopravvive, conservando le caratteristiche morfo-caratteriali che gli sono proprie: la costituzione fisica, robusta in tutte le varianti, in genere accompagnata da un avvallamento a metà del dorso (a differenza dei corso da esposizione, con dorso discendente di tipo boxerino), taglia dal peso variabile tra i 40 e i 70 kg; il muso ben squadrato, con canna nasale non eccessivamente raccorciata, tale da rimanere funzionale al raffreddamento dell'aria in condizioni ambientali e di lavoro estreme (ricordo che stiamo parlando di un cane di origini mediorientali preservatosi nel Mezzogiorno lavorando); la chiusura dentaria spesso a forbice diritta, forbice rovesciata, tenaglia, qualche volta prognata; il mantello, in genere, di una tessitura detta “a pelo di vacca”, di lunghezza corta ma non rasa, composta da pelo e sottopelo particolarmente folto nel periodo invernale; la colorazione molto più ampia di quella prevista dallo standard e comprende anche una moltitudine di colori e abbinamenti, quali il frumentino o formentino chiaro tanto bistrattato, grigio piombo, blu, tutti quanti accompagnati talvolta dal bianco sul petto, sui piedi, e talvolta una listatura bianca sulla canna nasale (peraltro prevista anche dallo standard) ; infine, la presenza, in taluni soggetti,del quinto dito, il cosiddetto sperone, o addirittura (raro), il doppio sperone con o senza articolazione, caratteristica da me constatata su diverse cucciolate (anche discendenti di campioni), che comprova l'arcaica primordialità della razza o quantomeno lo scambio di patrimonio genetico avvenuto in passato con il pastore abruzzese, detto anche mastino abruzzese.
Si usava infatti fare degli accoppiamenti programmati trà queste due razze a scopo funzionale, sebbene talvolta gli accoppiamenti fossero certamente anche casuali, visto che questi cani vivevano a stretto contatto nell'ambiente rurale. Il risultato dell'accoppiamento trà il pastore abruzzese e il cane corso ha un nome ben definito, che è quello di " mezzocorso ", tipico incrocio funzionale da sempre praticato o comunque ben visto, con lo scopo di dare al cane corso una maggiore attitudine alla custodia del bestiame, rusticità, salute e quindi longevità, caratteristiche queste geneticamente proprie dell'abruzzese; d'altra parte, il sangue del molosso nell'abruzzese serviva per dare una maggiore possenza strutturale, una presa più forte e tenace, un carattere più ardito, poi, la selezione dell'uomo, faceva si che scremando in base al colore, generazione dopo generazione, si ritornasse al bianco (dominante nel cane da pecora) cosi da avere dei cani da pecora bianchi maggiormente adatti ad affrontare orsi e lupi. Il carattere del molosso italiano vecchia maniera risulta essere estremamente equilibrato, protettivo nei confronti dei membri della famiglia di appartenenza e delle cose alla cui custodia viene preposto, al punto da risultare impavido difensore nei confronti di qualsivoglia minaccia, o elemento che lui ritiene potenzialmente tale.
Tende ad essere morboso nel suo affetto, protettivo al punto da risultare possessivo per detenere “l'esclusiva” degli affetti; si abbina eccellentemente con gli animali domestici, verso i quali sviluppa la protettività istintiva, che ha per tutto ciò che è di proprietà del suo padrone. Coraggioso, tanto da divenire temerario e bisognoso di contatto umano esclusivo, serioso e poco incline al gioco, coscienzioso del suo ruolo di protettore, ma anche riflessivo. Predisposizione naturale della razza, che ritroviamo in alcuni soggetti, è il caratteristico modus operandi di fare la guardia: tende, in caso di sconfinamenti nel suo territorio da parte di malintenzionati, a scagliarsi sull'intruso a volte senza preavviso, ma tendendo ad astenersi dal mordere veramente se non strettamente necessario, limitandosi tendenzialmente a bloccare il soggetto e trattenerlo, il che ne fà il " cane da presa " per eccellenza .